Abbiamo visitato l’Avana, insieme a Peter, nel febbraio 2002. Ecco le mie impressioni di allora.
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L’Avana è una città puzzolente, sporca e pericolosa.
Dopo 50 anni di abbandono totale, coadiuvato dalla salsedine è in avanzato stato di decomposizione chimica. Il precipitato è una polvere pesante dal colore indefinibile, composta da calcinacci sfarinati, ruggine delle inferriate di cui è dotata anche la più piccola finestrella, da infissi e facciate bucherellate come soltanto il dente roditore del tempo sa fare.
Tale polvere posa con ineluttabile certezza su tutto, sui pozzetti con e senza coperchio, sui bozzi e sulle buche di cui è composto il manto stradale, sui marciapiedi divelti e mai risistemati, lavori in corso senza la purché minima segnalazione.
E quindi, occhio a terra quando cammini per l’Avana, il pericolo di una storta o di uno o più ossa rotte incombe ovunque.
Gianni è la prima vittima, subito la prima sera cade, via in ospedale, 25 dollari per farsi visitare, niente lastre, soltanto le mani esperte del medico, e cammina di nuovo, zoppicando per tutto il ns. soggiorno a Cuba. Le cadute sono all’ordine del giorno qui, spiega il medico. Facciamo caso a tanti piccoli e anche grandi gessi, quando riprendiamo a camminare per le strade dell’Avana.
Contro il tanfo, che ci accoglie all’arrivo e non ci lascia neanche per un secondo per i primi due giorni, adoperano un sistema da fantascienza noire. Delle camionette con muso lungo, costruite negli anni ’50, corrono con velocità impressionate in lungo e in largo per tutta la città, spargendo dietro di se una nebbia bianca soffocante che sa di disinfettante. I ragazzi avanesi, a petto nudo anche a febbraio, ci si tuffano felici come se fosse una gradita doccia.
In effetti, il giorno dopo la puzza di muffa è scomparsa, restano tutte le altre puzze, la cui varietà è notevole.
Insomma, vale la pena attraversare l’Atlantico con un viaggio faticoso, spendere tutti questi soldi per vedere l’Avana?
Se sei un serio impiegato statale con una visione certa del mondo, del tipo, se tutti facessero come dico io, il mondo sarebbe perfetto, allora lascia stare. Il mondo gira nonostante le tue convinzioni.
Se sei un serio professore di scuola media italiana, convinto che bisogna girare e vedere anche altre parti del mondo, allora prenota un bel viaggio tutto compreso con tutti i comfort dei circuiti turistici occidentali, vedi Cuba da sotto la campana di vetro e tornerai contento del bel viaggio che il mestiere ti permette di pagarti e per aver visto tutto quello che ai turisti fanno vedere.
Ma avrai visto ben poco di quello che vedono i cubani. Perché a loro non è permesso di entrare nei giardinetti del Parque de los Martires o Céspedes o al mercatino, che tre giorni a settimana si tiene lì. Sono riservati ai turisti che portano dollari. Anzi, ai cubani non è neanche permesso rivolgere la parola ai turisti, divieto ampiamente disatteso, perché ogni tre passi che fai c’è ne uno che, avendoti inquadrato come turista facoltoso, ti offre sigari, il ristorante “particular” (in casa privata), le languste (ve le portiamo già preparate, pronte da mangiare), la monetina del Che e quant’altro turista possa desiderare. Anche il viagra made in Cuba che, a giudicare dal gestaccio e dagli occhi sfavillanti della farmacista che te ne parla dietro un paravento, deve far miracoli.
Tuttavia Mandi, che ogni tanto ci accompagna, è sempre un po’ sull’attenti, anche quando è in presenza della sorella, sposata con un nostro lontano parente in Italia.
La polizia è ovunque, due volte sei ore al giorno di servizio, sempre in piedi. Ad ogni angolo di strada. Controlla i documenti ai cubani arresi al loro destino, e con walkie talkie trasmette a quello dell’angolo successivo: cinqos turistas, e quello ci attende e trasmette al compagno successivo.
Il che non ha impedito ad un adolescente a tentare di strappare nottetempo una catenina d’argento da pochi soldi a Teresa. Le rimane mezza catenina e un bel segno sul collo. E lo spavento a tutti noi.
Giriamo con appresso solo l’essenziale. Dentro la residencia particular che abbiamo preso in affitto alla Habana Central garantisce il proprietario, per legge. Non credo tuttavia che sarebbe in grado di rimborsare neanche le macchine fotografiche o la cinepresa che ci siamo portate appresso.
E dunque tuffiamoci a fare la spesa. Mandi ci porta da “Època”, grande magazzino dove si paga in dollari. Venti minuti di fila per lasciare le borse in custodia ci sono risparmiati, perché Mandi ci aspetta fuori con le nostre borsette. Dopo sarebbero stati altri venti minuti per ricuperarle. Sopra il banco dei profumi con offerta assai povera sono chine cinque donne, la fila dei sederi in fouseau con mutande ben delineate è interessante. Scendiamo al piano interrato al reparto alimentari. Peter, che per qualche anno ha vissuto le arbitrarietà della Germania comunista, comincia a colorarsi di viola di rabbia. L’offerta è scarsa a confronto con un supermercato occidentale, ad ogni angolo una cassa, merce cubana che i cubani stipendiati in pesos non vedranno mai, e anche birre estere. I tovaglioli di carta sono una cosa preziosa, un pacchetto con una ventina di tovaglioli di carta riciclata costa mezzo dollaro.
Perché tante casse? Per fregarti meglio. Una cassiera si è sbagliata di mezzo dollaro, in suo favore ovviamente, l’altra mi da meno resto del dovuto. Devi sapere che il governo cubano ha pensato bene di coniare monetine di cents cubane di resto ai dollari americani, e noi all’inizio, già alquanto confusi dall’euro introdotto da appena un mese, non ci capiamo niente e quindi è facile imbrogliarci. Mentre controlliamo le monetine ricevute, ci troviamo sotto gli occhi le mani di una vecchia che ci chiede l’elemosina. Le do alcune monetine, e questa scappa come un fulmine. E poi c’è da passare per il riscontro del contenuto delle buste della magra spesa con lo scontrino, lavoro effettuato con gran scrupolo da due tipi in una specie di uniforme che alla fine sigillano le buste. Siamo felici di poter abbandonare questo posto assurdo e non ci torniamo più. Peter ha osservato una vecchia che, con poche monetine in mano, si guardava sognante le merci che comunque non avrebbe potuto acquistare.
E poi dobbiamo ancora comprare il pane. I cubani fanno la fila anche per il pane. Noi entriamo, paghiamo in dollari, facciamo presto, ma mi sento tirare la manica della maglietta. Una donna piccolissima e magrissima indica con il dito un biscottino esposto sotto la lastra di vetro del banco. Costa 15 cents. Glielo compro. Anche lei sparisce in un batter d’occhio, ma poi mi sento nuovamente toccare le spalle, mi giro, la piccola mi ringrazia raggiante.
Come si fa a vivere con uno stipendio cubano? Il padre di Mandi ha una pensione di 300 pesos, 12 dollari. Non ci fa praticamente niente. Due figli sono fuori, Desi, la nostra parente che si barcamena con uno stipendio italiano e ogni tanto manda 100 dollari. L’altro è un orchestrale di un noto cantante americano, vive a New York, guadagna bene e sostiene i genitori in modo da permettere loro una vita decorosa. Il padre ha insegnato a lui e a tutti gli altri figli a suonare la tromba ed è stato ripagato. Gli altri membri della famiglia conoscono mille strade per ricuperare i preziosi dollari dall’enorme giro turistico. Soldi, all’Avana, ne girano tanti. Dopo gli anni di fame, fame vera dopo il crollo dei paesi comunisti europei, Fidel, in questo paese con una natura baciata dagli dei, ha aperto ai turisti, ha introdotto la circolazione della doppia moneta. Amici di Desi pochi anni prima, si erano fatti 5 anni di prigione per possesso di dollari. Ma ora i cubani ricuperano, prima il mangiare, ora l’aspetto esteriore, il vestire, e la domenica osservo un uomo giovane che con amorosa attenzione tenta di ricuperare il ricuperabile della a suo tempo bellissima facciata stile liberty di una casa nell’Avana Central.
La Mai, la dolcissima moglie di Mandi con nonno cinese, lavora in un ristorante nel Barrio Hino, nel quartiere cinese dell’Avana. Guadagna 260 pesos per un parttime verticale, una sera sì, una no. Nel ristorante si mangia bene, anche grazie al fatto che Cuba ancora non conosce l’industria alimentare, quindi i peperoni sanno di peperoni, e i pesci sono pescati nel mare, non di allevamento. Dai 10 ai 15 dollari per una cena con aragosta e gamberoni. Osservo due tedeschi sulla cinquantina, viso consumato da una vita di noia, accompagnati da due mulatte. Mangiano da far paura, non comunicano un granché con le loro compagne, alquanto annoiate. Arrivano due bistecche al sangue, una delle due la passa con faccia schifata al suo uomo. Ogni tanto avviene una comunicazione di qualche battuta mal compresa, le ragazze toccano, sempre ogni tanto, dove l’uomo vuole essere toccato per i preliminari, ma ritirano presto le mani. Pare che ai tedeschi basti così, per ora. Alla fine si accendono un sigaro gigantesco.
Lasciamo una bella mancia. Perché tutto il personale del ristorante alla fine della serata si divide le mance, e La Mai in una buona serata si porta a casa 7 dollari.
Il giorno dopo siamo al Café de Paris, all’Avana Vieja. Questa volta osservo due italiani, della stessa età, in compagnia analoga. Decisamente più energici, sono loro a toccare, già un po’ brilli in previsione del bel finale. Certo, anche la lingua favorisce una comunicazione più brillante. Le ragazze ridono divertite. L’attento caricaturista del posto ci ha presi di mira, vorrebbe fare una caricatura che poi vende per due dollari. Gli facciamo capire che ne ha già fatte due qualche giorno prima. Gli indichiamo i due italiani, sarebbero dei bei soggetti. “Non mi piacciono,” ci risponde in italiano. Gli chiediamo anche cosa sono quelle donne, tutte vestite di lindo bianco, gonna lunga, almeno fino a sotto il ginocchio, calze e scarpe bianche e copricapo bianco. Risponde pronunciando parole come “africa” e “satana”, poi veniamo a sapere che si tratta di fedeli di una religione africana. Il che non impedisce loro di rimorchiare gli stranieri con gran spiegamento di tutte le arti della seduzione femminile.
Devono faticare di più delle altre, tutte, ma veramente tutte con fouseau attillatissimi e quanto basta per coprire l’essenziale, fantasiose acconciature cubane, molto sensuali, solo a guardarle con tutte queste infinite tonalità di carnagione è un piacere. Qualche bruttina, ma la maggioranza delle donne è semplicemente bella. E i cubani maschi mi sembrano tutti dei grandi bambinoni, dolci, mai volgari, un po’ timidi. Chiedono ai nostri uomini se hanno avuto qualche focosa avventura. E una donna, direttrice di un ufficio affitta-residencias-particular, ci racconta che le piace tanto un certo tipo che, invece di rispondere al suo amore, preferisce le avventure con le straniere. Viene un po’ di tristezza a pensare che questi devono essere gli effetti della rapida occidentalizzazione di Cuba.
La vera scoperta è la gente qui, sporca nelle case sì secondo i nostri canoni, anche povera, ma pulita nei vestiti e con una voglia solare di vivere ogni respiro che il Signore ha loro concesso. Non vedo visi contriti, amareggiati, i bambini piangono semmai un pochino nell’attimo del dolore. Sono la cosa più preziosa che esiste per i cubani, vestiti bene e pettinati con amore, quasi da grandi, seguiti con attenzione anche nelle scuole con le porte aperte verso la strada. Scolaresche in giro per le strade per la refezione, divisa, colori diversi a seconda della classe che fanno, bicchiere e posate in mano, chiassosi, come tutte le scolaresche del mondo. E i ragazzi giocano sulle strade, dato che passano pochissime macchine, a pallone, a baseball con i guantoni, con qualsiasi strumento che si possa muovere, magari inventato da loro con grande ingegno, con la ruota nuda di una bicicletta, battuta con un bastone. Vedo un ragazzino che cammina convinto per la strada, con mezza scatola di cartone che gli fa da cassa di risonanza per il ritmo di salsa battuto con un coltello sopra il cartone. Una scolaresca fa ginnastica in strada.
I mezzi pubblici sono un semplice orrore, nottetempo anche senza luce, tutti stipati dentro. Non abbiamo il coraggio di salirci. Ma comunque tutti al mare, si fa l’autostop, dieci (davvero 10) in una macchina del tipo “eppur si muove”, americana anni ’50. I meccanici cubani devono essere dei geni. La benzina puzza da morire e costa un dollaro al litro. Si parte in bicicletta, marito, moglie, un bimbo in mezzo, moto vecchissime con sidecar. E poi i risciò, con valore di antichità, rudimentali, non capisco come mai hanno resistito tutti questi anni. Sono un mezzo di trasporto economico e interessante. Sudano i conducenti, poverini, mentre pedalano, ma sanno schivare le buche nelle strade con maestria notevole. Anche loro incassano dollari, più di La Mai suppongo.
I biglietto da un dollaro ti apre tante strade. Chiediamo informazioni per una strada, il nero dalle braccia lunghissime non lo sa, va a chiedere, torna, ci spiega benbene lanciando le braccia stratosferiche nelle varie direzioni e poi ci chiede un dollaro. Nel Museo de la Ciudad le guardiane ti vengono a cercare e ti aprono i reparti chiusi con la corda.
Davanti al Museo ci capita di vedere uno spettacolo per i bambini, arrivano delle maschere coloratissime su trampoli altissimi con gran fracasso e musica, grandi professionisti che faranno divertire le scolaresche per quasi due ore, sempre sui trampoli. La fantasia non manca.
E la ricchissima e radicata cultura di un popolo isolano, che il regime di illibertà non ha e non ha voluto sradicare, riemerge e ci avvolge pian piano.
Ho visto quadri non proprio eccezionali ed altri bellissimi (quelli più recenti) al Museo delle Belle Arti riaperto da poco, dopo un restauro fatto con amore. L’aria condizionata è gelida. Gli edifici stessi sono belli, belle le vetrate cubane, sorprendente la collezione di vasi greci, ben esposti. E sorprendente la collezione dell’arte cubana del ‘900, quadri espressivi, caparbi nei colori, una parte nell’edificio principale, un’altra nell’edificio secondario. Non ne trovo descrizione in nessuna delle guide.
Anzi, le guide tedesche ed italiane che ci siamo portate appresso sono alquanto imprecise. Così, per esempio, indicano Copelia come gelateria migliore della città, edificio interessante, immersa nella vivace vegetazione. I cubani fanno la fila, chi ha dollari non la fa. Bene, ci avviamo a piedi nella notte poco illuminata (è la volta che sentiamo i poliziotti comunicarsi a vicenda il nostro arrivo). Troviamo Copelia, tanti giovani allegri a fare la fila. “Turistas?” Si. Allora di qua. Ci mandano su un lato, non vediamo nulla dell’eclettica costruzione, mangiamo un gelato mediocre che vendono ad un chiosco bruttissimo, cameriere antipatico, il gelato te lo devi portare al tavolo da solo, e paghiamo 18 dollari in cinque.
A El Naranjal, invece, i camerieri sono gentilissimi, il gelato è squisito e abbondante, molto dolce – i dolci cubani sono tutti molto dolci – e paghiamo un dollaro e mezzo a testa.
Interessante anche il Museo della Revolución, faticoso, perché esposto con i criteri della documentazione con mezzi rudimentali, fotocopie sbiadite, tutto un po’ scuro, ma istruttivo. Spiegazioni in spagnolo e inglese. Il cucchiaio che usava quel tale quando era in quella tale prigione. Il vestito impregnato di sangue – sbiadito – che aveva addosso quella tale quando è stata ammazzata. Fidel ed il Che: Ma quanto eravamo belli e rivoluzionari! Ma eravamo belli veramente: “Jovanes, Rebeldes, Siempre”, leggiamo sui cartelloni pubblicitari lungo le strade fuori Avana. Fidel ha 75 anni, e ancora tiene discorsi di 4 ore. Lo abbiamo visto in televisione, grande attore. Ma ho comunque l’impressione che lui ed il Che ci abbiano creduto davvero, e hanno anche fatto tanto. Sono passati proprio tanti anni. Nel museo le foto delle bidonvilles degli anni ’50, prima della revolución. Guardo dalla finestra, e la visione degli edifici reali oggi non è poi tanto diversa. Abbiamo anche visto delle vere bidonvilles di cartone e lamiera ondulata, dove vivono anche oggi migliaia di persone. Il turismo miracoloso con tutti i suoi dollari saprà dare una casa dignitosa anche a loro?
L’Avana, in particolare l’Avana Vieja è in fermento, si lavora dappertutto. Nella Via Mercaderes vicino alla Catèdral hanno appena finito un bellissimo murales che rappresenta i personaggi storici più importanti della città. Vale la pena recarcisi per una foto contraddittoria e surreale. E intorno alla Plaza Vieja si sta restaurando un intero quartiere con i finanziamenti dell’ONU – l’Avana è stata dichiarata patrimonio artistico dell’umanità. Improvvisamente siamo in un altro mondo. C’è anche Benetton. L’Obispo, la via Condotti della città, è tutto un martellare, battere, tutti lavori eseguiti a mano, ed è una questione di tempo che assomiglierà davvero a Via Montenapoleone. Per ora è un caos, tanta gente di ogni genere, più negozi che in qualsiasi altra strada della città, alcuni assurdi, buche, tante buche, mucchi di sabbia, un pavimento di marmo rosso appena finito dentro un negozio, mancano le vetrate, donne in fouseau fuxia scintillante con sotto messa in bella mostra la targhetta, ragazzini che giocano, stranieri che cercano e non trovano, negozi statali dove si paga in dollari e che sanno ancora di piano quinquennale ed economia pianificata. Le vecchie dalla lacrima facile che ti chiedono l’elemosina.
Hanno tutti bisogno di dollari, e i sistemi per ricuperarli sono ingegnosi, l’ultimo è quasi violento. Siamo all’areoporto. Al counter su’ le valigie sulla bilancia, vengono contrassegnate con il marchio rosso del sovraccarico e via sul nastro trasportatore. Quando sono sparite tutte cinque, la hostess vuole 375 dollari per il sovraccarico, 20 dollari al chilo. I nostri uomini sono esterrefatti, discutono, semplicemente non li abbiamo, insistono che vogliono le valigie indietro (meglio regalare qualcosa ad un cubano povero che pagare), l’hostess esperta (il sistema è ben consolidato) capisce che siamo degli ossi un po’ più duri degli altri e alla fine si accontenta di 45 dollari. Quasi tutti gli altri pagano cifre indicibili senza batter ciglio. Siamo in un paese totalitario e devi fare quello che dicono loro, commenta un altro italiano che ha pagato 217 dollari.
Dentro la hall molto occidentale, perché costruita apposta per la visita del papa, chiudo gli occhi, non voglio più vedere nulla. Le impressioni recepite con i cinque sensi in quindici giorni sono tante e forti. Ho sentito le puzze, tanto disinfettante, sparso ovunque e dappertutto, alla fine anche nel bagno da guerra del ’15-18 della nostra residencia particular. Sento ancora sulla pelle la gradevole umidità che penetra dappertutto, la carta è diventata seta, il cartoncino il più malleabile delle stoffe di velluto. Ho fatto il bagno nella calda acqua del Golfo del Messico. Ho visto le famose, spettacolari facciate dell’Avana, che, se fossero curate come si deve, avrebbero poco da invidiare a quelle di Venezia. Ho visto gente bella, di pelle scura con occhi celesti, di fisionomia africana coperta di pelle gialla e con occhi verdi. Li ho visti ballare per le strade, senza alcun motivo particolare, così, per la gioia di vivere.
E ho sentito il ritmo dell’Avana.
Eh, la musica, niente bel canto, poche melodie, ma ritmo, tanto ritmo, incessante, giorno e notte, battuto con sapienza sugli strumenti che sembrano rudimentali, ma sono efficaci più di qualsiasi musica elettronica o batteria occidentale. Penetrano nel tuo fisico come l’umidità nella carta. Il ritmo s’insedia nello stomaco e nell’intestino crasso e non ti lascia più. Peter, al mercatino al Parque Céspedes ha comprato un’intera batteria di 7 strumenti a percussione per 5 dollari, il che ha contribuito non poco al sovraccarico della sua valigia. Il fruscìo della maracas, il raspare del guiro, bongos e congas e timbales, battuti con mille sistemi per mille toni diversi, e il clave, quello che senti ancora, quando i filtri della città hanno assorbito tutti gli altri strumenti. Lo senti con i più svariati accompagnamenti, il pianoforte, la pianola, il canto, la tromba, il flauto, la chitarra, il sassofono, dai ristoranti tutt’attorno alla Plaza de la Catedral, dove le orchestrine suonano buona musica cubana per clienti e passanti, stranieri e cubani, dai musicisti con i loro strumenti in giro per le strade, l’orchestrina sulla Plaza della Catedral, lo senti dalle radio dentro le case, fuori sulla strada, dalle macchine, dai risciò, dove hanno legato con ingegno qualche vecchia radio sotto i sedili, dalla gente che semplicemente si diverte a battere i ritmi con i quali sono nati e cresciuti. Hanno bevuto il latte materno al ritmo i salsa. Ballano, si muovono rimbalzando, tum, tum tumtumtum. Due battute del clave e tutti reagiscono, battendo su qualsiasi cosa possa fare da controcanto. Tum, tum tumtumtum, bene, Mandi mi ha spiegato il ritmo base della salsa. Facile. – E tutto il resto? Quanti ritmi diversi ci sono? Songo, Cumbia, Mapalé, Caballo, Calypso, Chachacha, Chandé, Toquede Changò, Conga, Merengue, Plena, Rumba Columbia, Rumba Guaguanco, Tamborito… . Impossibile da afferrare. E’ tutto un incastro, un groviglio, un intreccio che ti scuote, ti fa vibrare, ondeggiare, tremare, dondolare, saltare. La più complicata e complessa della fughe di Bach gli fa un baffo. Tenti di seguire, ma poi arriva quel plock, che non ti aspetti, fuori da ogni logica, ti trapassa, e un altro plock, plock, nel bel mezzo un plollollolollo, dove le “o” tende a svanire. Mentre scrivo ascolto i CD casarecci che ho comprato nei vari ristoranti, ho scrutato i musicisti con il teleobiettivo, rivedo le riprese, avanti, indietro, al rallentatore, niente da fare. Ci rinuncio e mi lascio contagiare dall’ironica allegria dei ritmi avanesi.
Una sera verso la fine del nostro soggiorno siamo invitati a cena a casa del maestro di tromba. Il nipote acquisito, cuoco di mestiere e tuttologo un po’ vanitoso, ha cucinato un maialino ottimo, condito con un miscuglio di spezie insolito e buonissimo. Mi spiega anche la sua ricetta segreta del mojito, con cui ci accolgono come si deve in qualsiasi angolo di Cuba. Intuisco che mojito e maialino sono cose preziose per loro. Abbiamo portato una torta dai colori incredibili, trasportata senza alcuna protezione per le strade, birre e rum, e la serata si riscalda. Si ride, non ci si capisce un granché, ma quanto basta per essere amici. Mandi suona la tromba, il maestro 83enne fa suonare la nipotina di nove anni che promette bene, la moglie del cuoco canta con voce rauca una canzone struggente, la nipotina piange per la commozione. Sentiamo ed impariamo vecchie e nuove musiche cubane. Si canta tutti insieme, My way e Michelle. E poi, a notte fonda delle melodie inconsuete pervadono le strade buie ed ancora piene di gente dell’Avana Vieja: O Sole Mio, Lillì Marlèn – Mandi impara ascoltando – un notturno di Chopin sulla pianola. E ZaZà. I cubani imparano al volo, ci seguono nell’accelerando, Desi ride talmente che temo che le si crepi la pelle per davvero, il vecchio maestro di tromba canta anche lui, e quando è il momento di salutarci commenta: “Un momento bello” (pronunciasi “beijo”).
© Claudia Podehl