Le papere di Piazza Pasolini
di
Claudia Podehl
©
Oltre i cinquant’anni, capelli bianchi, ai vertici dello Stato l’uno; quindici anni, figlio di un boss della malavita, con una bella ciocca di capelli bianchi nella capigliatura alla Gheddafi anche l’altro. Entrambi sono passati per le mie inquiete mani di insegnante. Qualche settimana dopo, nel bel mezzo delle esternazioni quotidiane del suo capo, vengo a sapere dell’ulteriore meritata carriera dell’apprendista stregone, uomo di grande cultura, ragionatore frattale. Che ne è di Carlo, semianalfabeta quando arriva da noi, irrequieto, nevrotico, ma rispettoso, perché ha già imparato ad avere paura, non l’ho mai saputo. Mi riesce difficile credere che abbia optato per una vita da persona seria, bravo elettricista, buon padre di famiglia, grande lavoratore. Avrebbe dovuto recidere le sue ali capaci.
E la vita gli ha insegnato tutt’altro, a Piazza Gasparri ovvero Piazza Pasolini, ad Ostia. La Costituzione Italiana e tutte le belle leggi dello Stato non arrivano fin lì.
I ragazzi sono contenti quando ne parliamo e aggiungono volentieri i diritti inviolabili dell’uomo al mondo di ideali in cui ogni quindicenne crede.
Madre e maestra di vita qui negli anni ’80 è l’eroina con il suo indotto. Circonda chiunque come l’aria. È la direttrice, il calibro negativo contro cui misurarsi, misurare la capacità di resistenza di questi ideali che ognuno ha elaborato faticosamente per contro proprio.
“A professorè, ho fatto l’amore con control!”
E mi guarda fisso negli occhi.
“Bravo, ti accontenti di poco, tu.”
Rimane per qualche attimo a muovere la bocca alla maniera del pesce, poi si gira di scatto e corre fuori.
“Barracuda!”, urla, “A Barracù..!!! Hai sentito che ha detto la Professoressa?!!”
Sento un attimo di silenzioso ascolto tra i ragazzi in ricreazione, poi le risate. Lo deridono, perché si è fatto fregare.
.
Hanno infilato un compagno mingherlino dentro un cassonetto delle mondezze e poi l’hanno spinto giù per la discesa di un garage sotterraneo.
Agitazione e sconcerto a scuola. E compassione per il poveretto. È arrivata la mamma. Davanti al preside punta il dito contro un ragazzo terribile, grosso, forte, bellimbusto da sturbo, Sylvester Stallone in versione bionda, che avrebbe minacciato il figlioletto, lanciandogli strali catastrofici dai suoi occhi celesti. Stranamente questo ragazzo è un pezzo di pane che mai piegherebbe un pelo a nessuno, amicone di tutti. I ragazzi si difendono dicendo che il cassonetto non era mica pieno, era appena stato svuotato! Il tutto finisce con una scenata forte di punizioni generiche terribili, anche perché non si sa bene chi è stato.
Fuori: “Ma dico, ragazzi! Ma siete impazziti, voi?”
“A professorè!! Quello rompeva, sa? Ma …. rroommppeevvaa.” Il tutto accompagnato dal gesto romanaccio del caso.
Sono arrivata a Ostia il 1° dicembre 1981. Prima di me ne avevano fatto fuori una al mese, quindi ero la terza. Avevo lottato parecchio per avere il completamento della cattedra nella FP e per uscire dalle grinfie di un gestore psicopatico di un altro Ente di Formazione Professsionale.
6 classi di maschietti apprendisti elettricisti sono capaci di maneggiare cacciaviti, lo fanno volentieri, 20 ore la settimana in laboratorio con 2 professori e ogni ben di dio di strumenti e attrezzi, sopportano altre 6 ore di teoria abbinata alla pratica, e poi ci sarebbero due ore di educazione civica e … due di inglese. E questo sarebbe il mio compito nei primi anni, inglese tecnico per giunta.
All’inizio facciamo a chi urla più forte. Vincono loro, per settimane intere.
Con la macchina da scrivere elettrica (il computer non esiste) mi invento un crucipuzzle con i termini base che servono a loro.
E assaporo i primi silenzi in aula. Di ritorno dalla ricreazione trovo un collega con il foglio appoggiato alla porta e la penna in mano, intento a risolvere il compito.
“A Professorè, io l’inglese: I’m nun lo saccio!”
Dopo due anni – da 40 settimane di lezioni ciascuno – in cui mi sono inventata, sempre con la macchina da scrivere, un corso di inglese tecnico per imbecilli, e i ragazzi si sono abituati a me – vedo qualche risultato. Non che imparino l’inglese, ma fanno gli esercizi, almeno per metà della lezione. E qualcuno impara anche qualcosa. L’italiano soprattutto.
Uno soltanto resiste a tutti i tentativi, ragazzo moro e vitale, occhi grandi, sembra sceso da un affresco pompeiano. Ha trincerato il suo cuore dietro lo scudo invincibile dell’eroina. Si vede come gode nel constatare che nessuno degli adulti riesce più ad avere la meglio su di lui. Lo scudo lentamente avvilupperà tutto il suo cuore, reciderà le radici adduttrici di linfa vitale dal mondo esterno. Alla fine gli toglierà anche il respiro.
L’energica bidella, la “Sora Gina” li fa filare con il suo enorme mazzo di chiavi che raramente finisce su qualche coscia. La sola minaccia è sufficiente. Oppure li afferra per il lobo dell’orecchio e li infila nell’aula, mentre l’afferrato con la testa storta urla: “No, Sora Gina, no!”
Ho scoperto che un colpetto ben mirato sulla parte superiore del braccio fa male. E non avendo né le chiavi né la statura di Gina, adopero questa tecnica. Li voglio in aula quando arrivo, qualcuno ci prova, galante: “Dopo di Lei, Professoressa!” Ma, come alzo la mano per il cazzottino, è già dentro l’aula.
L’uomo vero, tutto muscoli, biondo scuro, con il solo piccolo difetto di essere appena tre centimetri più alto di me, fa il duro. La notte, racconta, insieme agli amici va sotto i ponti di Ostia e con la pistola spara ai topi. Descrive anche come reagiscono topi e ratti: scappano con rumoracci terribili.
Anche lui vorrebbe entrare in aula dopo di me. Alzo la mano, giù un colpetto, ma l’indiano vero non conosce dolore, giù un altro, resiste e non batte ciglio. Giù il terzo: niente. Lo afferro per le spalle e lo spingo dentro l’aula. Si fa lezione. Dopo la ricreazione trovo tutta la classe con il sorrisetto che mi guarda, indicando la lavagna: “Achtun, Achtun, Podel in the classroom”. E sull’altra: “Podehl, the Lion”.
I due terzi dei ragazzi che frequentano la scuola abitano nella sunnominata Piazza Pasolini, una bella piazza grande con vista sul mare vicina alla foce del Tevere, circondata dall’edilizia popolare anni settanta.
Il Comune di Roma aveva pensato bene di dare casa a tutti i baraccati di Roma e, in effetti, le baraccopoli che deturpavano Roma fino verso la fine degli anni ’70, sparirono in pochi anni.
La stessa piazza, prima di assumere il nome del regista, si chiamava Piazza Gasparri e tutti gli abitanti di Ostia, vecchi e nuovi, continuano a chiamarla così. E’ sinonimo di China Town.
Pasolini frequentava la piazza e trovava quello che cercava.
Nelle lezioni di educazione civica, che qualche anno più tardi mi vengono affidate, i temi di maggiore attualità sono l’eroina e l’AIDS. Per quanto concerne il primo imparo tanto da loro quanto loro da me. Alla fine li costringo a riassumere i ragionamenti fatti in un compito in classe.
Nei miei appunti di allora trovo le seguenti papere:
la troga
i droghati
i tossicoindipendenti
si ignette
droghe tramite siringhe o tramite nasale
sia a causa perché
l’assilifazione
la suefazione
la sueffazzione
puoi andò a roda
alluccinoggeno
all’ucinazione
alluccinogino
porta all’indipendenza fisica
la dissocupazione
la disucupazione
l’assuefazione sarebbe la fisioterapia
attrave-
rso
non ne può più farne a meno
ventanni fa
marijulana
ascisc
hashisc
egli va a rubba(‘) e fa male alla persona derubbata
se una persona continua a ad usufruirne della droga non gli abbasteranno
l’alcool è legalizzato dalla legge
un overbisogno di più dose
la differenza tra droga e alcool è unica e cioè che sono tutte due tossiche
liguidi
irotazione della pelle
sbagliano affare così
riconfiamento delle gliandole
gli anosessuali
uomosessuali
uominisessuali
omo sessuali
trasfunzioni di sangue
trascusioni di sangue
mancanza di imutologia
vendendo i giornali i cittadini hanno ingrossato le faccende di questo virus
tramite una lacerazione del bacino tra sperma e sangue
i primi casi dell’AIDS sono stati innescati perché quest’estate, quando è morto un’attore hanno fatto la visita e hanno trovato l’Aids.
l’aids comporta sintomi di agonia
il rischio del contagio sono gli uomini e i bambini e si attacca faccendo dei rapporti sessuali.
rapporti sessuali tra due sessi maschili
innoque
la differenza è che la droga va a peso e l’alcool invece no.
se io potessi avere l’opportunità di mettere giudizio alla droga, io inizierei a mettere la sega elettrica contro i spacciatori
non si riesce affermalla, la delinquenza
le differenze sono più o meno uguali
un probelma che infligge tutto il mondo
tutte guante le droghe
il corpo si abbidua
una persona a cui affetta la droga
le droghe leggiere
e poi c’è stato il bum della droga.
Ho anche due classi di femminucce. Un corso biennale di stenodattilo (ricordo sempre che non esisteva computer, in quei tempi) e segretarie d’azienda. Carucce, tutte pulitine, inglese commerciale in quaderni tutti ordinati. Ingentiliscono un po’ l’ambiente del maschi-è-bello. Anche perché conquistarsene una è il massimo, e non solo per i ragazzi.
L’8 marzo lo festeggiamo con un esercizio di democrazia: elezioni (libere, segrete e paritetiche) di Mister Professore. Venti ragazze in aula, con tre voti ciascuna devono scegliere tra quattordici colleghi maschi, porte chiuse a chiave per lo spoglio dei voti. Questa volta, il chiasso più forte a scuola lo fanno le ragazze. Ogni anno ne esce una graduatoria dei Mister Professore che fa discutere alquanto, mai il collega più bello, ma chi ha la fortuna di poter insegnare nelle loro classi. I colleghi me ne hanno fatto pochi, di scherzi, ci devono stare, ridacchiano del punteggio basso degli altri e mugugnano alquanto del proprio.
Di agitazioni collettive nella scuola ce ne sono state tante. Una era periodica, verso la fine di settembre. Immancabilmente spariva qualche strumento dal laboratorio, ladruncolacci! E allora si agitava tutta la scuola, il preside, la segretaria, i bidelli, i professori e i ragazzi del secondo anno che già conoscevano la scena. “Ma lo capite o no? che fate soltanto male a voi stessi? Come facciamo a fare lezione quando qui sparisce la roba?” E giù di lì.
Altri strumenti magari si rompevano, ma non spariva più nulla. La nostra scuola – a misura per loro – era la speranza di uscire dal loro ghetto, di entrare in un mondo migliore.
Un’altra volta si discuteva tutti, perché un ragazzo, che assomigliava a un bravo impiegatuccio pallido e sempre un po’ curvo, cercava conforto, poverino. Aveva messo incinta la sua ragazza, che aveva deciso di abortire all’insaputa dei genitori, con il benestare del giudice per i minori. “A professòre, … perché questi genitori si fidavano solo di me. Non la facevano mica uscire, sa? Perché io sono un bravo ragazzo. Povero me.” Tutti sapevano del fattaccio, meno i quattro nonni mancati.
Alla fine dell’anno il bravo ragazzo non supera l’esame. Arriva la madre, nera dalla rabbia: “Io faccio ricorso in tribunale! Voi, qui, di mio figlio non avete capito niente! È un bravo ragazzo, mio figlio! ”
E un’altra volta c’è grande emozione. Un ragazzo, che già aveva lasciato la scuola con il suo bell’attestato, una notte era tornato da una festa con il motorino. Si era rifiutato, non si sa bene per quale motivo, di dare un passaggio a una ragazza. E a un incrocio era stato investito in pieno da una macchina. Ho sempre avuto difficoltà a ricordarmi tutti i nomi, i visi o addirittura abbinare i visi ai nomi. Ogni anno andavano via cento ragazzi e ne venivano altri cento. Troppi. Quel giorno, dopo una breve descrizione, mi è tornato in mente con tutta la sua possente statura, le espressioni del viso, la voce, i gesti. Non l’ho più dimenticato.
Entro in aula, tutti divertiti, tirano cartuccetti, urlano, allegri perché è primavera. Ho deciso di battere energicamente il pugno sulla cattedra, sulla quale è sistemato un vecchio portacenere di latta che sarebbe rimbalzato rumorosamente, attirando così l’attenzione sul fatto che sono entrata in aula.
Un ragazzo mi precede. Batte i pugni sul suo banco che, a dire il vero, gli sta un po’ stretto, e urla: “State zitti! State zitti tutti!” E continua a battere i pugni sul banco, e al ritmo delle sue parole: “Ragazzi!!!!! State zitti e guardate la Professoressa, che oggi è bona come una birra tedesca fresca fresca!”
Mi hanno fatto arrabbiare per tutte le due ore di lezione, e ora mi vendico. Un minuto di silenzio, prima di firmare uno per volta il registro di classe, poi possono andare a casa. Ma un minuto è composto da 60 lunghissimi secondi, scappano le batture, e il conteggio del minuto di silenzio inizia da capo. La procedura tira per le lunghe. Con stremante lentezza qualcuno riesce a firmare e abbandonare l’aula per il meritato pomeriggio di libertà.
Decido di chiamare due insieme.
L’uno: “A Professorè, ma pecché Lei c’ha le unghie tutte smaltate d’eng colore diverso?”
L’altro: “Mappe fatte parlà a te. Firma! Stronzo!” E giù uno sgannassone.
Firmano tutti e due e scappano urlando.
Carlo me lo trovo davanti un pomeriggio alle due e mezza, quando i ragazzi hanno il pancino pieno di pastasciutta della mamma e quindi dormono, e noi professori non siamo poi tanto più svegli.
Dopo circa otto minuti di calma che gli devono essere costati uno sforzo grande come una casa, Carlo si fa sentire. E continua a rompere le scatole. Alla fine scoppio. E da lì per tutta la sua felice permanenza nella nostra scuola saranno scontri.
È il settimo e ultimo figlio di un famigerato, decantato, romanticizzato Meckie Messer di Piazza Gasparri. Se poi siano effettivamente vere tutte le coloratissime storie che mi raccontano sul suo conto, compresi omicidi e galera, non lo so e non lo voglio sapere. Di certo sapeva farsi rispettare da questo suo ultimogenito.
Carlo, analfabeta di ritorno, scrive tutte maiuscole, ogni lettera con una zigrinatura finale, ortografia e italiano sono incredibili. Non rende nulla, i compiti sono disastri, ma continua a venire. Alle medie si era arreso – oppure lo avevano fatto arrendere – dopo pochi mesi.
Poi, nel secondo anno a marzo, mese fatidico di ogni anno scolastico, come per miracolo cambia scrittura, sempre maiuscole, ma lisce e con carattere. Contemporaneamente si aggiustano, come in un puzzle nei cartoni animati si mettono in ordine e ritornano a noi insegnanti nel verso quasi giusto tutte le cose che abbiamo insegnato e che lui aveva ingoiato senza mai rendere nulla. Verrà promosso per merito e non per gentilezza della commissione.
Si iscriverà anche per un secondo corso, ma poi abbandona. La conquista fatta è talmente grande ed emozionante che un bis diventa impossibile.
“A Professorè, che, ci dai un passaggio?”
“Dove dovete andare?”
“Noi dovemmo arriva’ ar semaforo de Acilia.”
Sono di buon umore e li faccio salire in macchina. Controllano con occhio intenditore la manovra per uscire dal parcheggio: bene, sa guidare.
“A Professorè, ma non ce l’hai la musica?”
“Certo che ce l’ho, la musica.”
“E allora? Facci senti’ quarcosa, va!”
È lì che li voglio! Giù Mozart, Zauberflöte. Sarastro scende nelle cavernosità più abissali della sua voce e raccoglie vibrata e sorpresa protesta.
Poi la regina della notte. I due scendono ar semaforo de Acilia senza più fiatare.
Una settimana dopo: “A Professorè, che, ci dai un passaggio?”
“Acilia?”
“Sì.”
Questa volta sono in quattro. Salgono un po’ eccitati. Controllo della manovra, poi un po’ sottovoce da dietro, dove è salito uno nuovo: “E la musica?”
“Ah sì, a Professorè, ci fai sentì la musica.”
“Va bene.”
“Si, ma falli sentì quella là, …. quella dell’artra volta, quella…, quella femmina che canta!”
–
La Costituzione festeggia i 40 anni. Per l’occasione si può averne una copia gratis in edicola. Chi non è riuscito ad averne una riceve una fotocopia, e invito la classe a non leggere affatto la prima fondamentale parte della Costituzione italiana.
26 ragazzi chini sul banco con la penna in mano. Il silenzio in aula è totale. Dopo venti minuti, laconico e sottovoce: “Sta fijja de ‘na mignjotta della professoressa c’ha fregati n’artra volta.” Gli altri sbuffano in una breve risata, ma non si lasciano distrarre. Entra Maurizio, il collega, sorpreso dell’insolito silenzio. Mi guarda con un punto interrogativo in viso. “Stanno leggendo la Costituzione,” gli spiego. Il punto interrogativo cresce ancora. Sorrido, ma non svelo il segreto. Dietro di me sulla lavagna parole come: stato, cittadino, uguaglianza, libertà, eguali, obbligatorio, parità, legge, diritto, dovere,…
“A professorè, ma anche ‘obbligato’? Lì ce sta scritto soltanto ‘obbligatorio’.”
“Certo,” risponde uno, “obbligatorio o obbligato: sei sempre te che devi fa’ ‘ste cose, no?!”
Quando i più veloci hanno finito, comincia il confronto: “147, io!”, “Ah, ma pecché? Li dovemmo ppure contà?” – “149″ – “Oòu, ma pecché tu ne hai due più di me? Famme mpo’ vede’!”
Arriva quello con la penna in una mano, la costituzione nell’altra, pieni di gel i capelli, pieno di brufoli il viso e protesta: “A professoré, ma che ce le scrivono a fa’, tutte ‘ste cose?”
“Come?”
“Ma dico, che ce le scrivono a fa’?!”
“Questa è la Costituzione della Repubblica Italiana, la legge fondamentale dello Stato Italiano”, tuono io.
“E ‘sti cazzi!! Ma è chiaro, NO??!!”
“Cos’è chiaro?”
“Ma tutte ‘ste cose che stanno scritte qua! Cianno pure sprecato la carta! Ma è chiaro, sta, sta… segretezza della corrisponnenza, o come cavolo se chiama. Ma mica me possono aprì le lettere, mo? O chennesso io, lì dove ce sta scritto che se potemo riunì. A professorè, so’ tutte logiche, ‘ste cose, no? Ma nun c’è mica bisogno da scrivele, no?!!”
Una mattinata grigia, il traffico di Roma e la Via del Mare già alle spalle arrivo a Ostia.
“A Professorè, noi famo sciopero.”
“Di nuovo? E perché, questa volta, se si può sapere?”
“E perché…. perché,…. perché sì. Perché famo sciopero.”
Sono divisi, litigano tra loro, chi entra, chi esce.
Dichiaro con la massima calma che alle 8 e 30 segnerò gli assenti nel registro. Chi è dentro, bene, chi rimane fuori dovrà portare la giustificazione. E che farò lezione.
E faccio come annunciato. Circa metà dei ragazzi è entrato.
Si alza il capoclasse, alto, robusto, ex-giocatore di basket, ciocca spavalda di capelli biondi ossigenati fino sopra gli occhiali che ingrandiscono a dismisura i sui occhi e il loro movimento.
“A Professoré, ma Lei non può mica fare lezione!”
(Figurati quanto mi sarebbe piaciuto avere due ore libere, se tutta la classe fosse rimasta fuori.)
“Senti, vi ho detto chiaro e tondo che faccio lezione. Quindi prendete i vostri appunti!”
Controbatte, la deve vincere lui, e dopo un lungo tira e molla si conviene che la classe deve chiarirsi le idee, perché così non si può andare avanti. Si fa un collettivo in classe, e io posso rimanere in aula.
Faccio finta di correggere i compiti.
Il capoclasse si appoggia alla cattedra dandomi le spalle e inizia una lavata di testa generale per i bravi ragazzi che sono entrati: Perché qui bisogna studiare, perché se no all’esame saremo tutti bocciati, e tu la devi smettere di rompere sempre – e, ma io faccio casino, perché lui mi stuzzica sempre. Dopo una ventina di minuti sono tutti sinceramente pentiti e spaventati dal fatto di essere bocciati.
Esaurita la scarica emozionale, c’è qualche attimo di silenzio. Ricomincia a volare qualche cartuccetto.
“Ah regà, ma poi ve devo dì n’artra cosa: ma lo sapete voi che lì, nel palazzo di Virna Lisi, ce sta il consultorio famigliare, e quando voi ähähä, (il gesto è inequivocabile), … voi potete annà lì, e questi ve risolveno tutti i problemi e nun ve fanno ne manco pagà?”
Nessuno respira più, tutti gli occhi puntati su di me.
Il capoclasse segue i loro sguardi e ora si ricorda che ci sono anche io dietro alle sue spalle forti. Salta dalla cattedra, si gira e mi guarda: “A Professoré, ma perché nun ce le dicono, ste cose? È ‘na cosa importante, sa?”
Metto su una faccia di granitica severità: “E tu, come fai a saperlo?”
“Ci so’ andato.”
“A?”
“Mi ci hanno mandato dal pronto soccorso.”
Il granito si sbriciola in sorpresa, e quindi il ragazzo decide di spiegarsi meglio:
“A Professorè, ci siamo andati io e lui. ” Mi indica il suo inseparabile amico, piccolo, orecchie a sventola, naso storto, capelli pettinati in parallelo al naso. Sorride sempre. Ora annuisce anche.
“Perché io ci so’ stato colla sorella sua.” L’amico sorride felice. “Soltanto che lei, dopo, c’ha avuto paura e semo andati al pronto soccorso. Cioè no, prima semo andati in farmacia. Ma quanto era stronzo quel farmacista, mamma mia! C’ha strillati: ma ci dovevi pensà prima. Mo’ non posso fare niente – stronzo – e poi c’ha mannati al pronto soccorso. E pure quelli del pronto soccorso so’ ignoranti, pure questi: ma ci dovevi pensà prima! Ma Professoré, ma come si fa a pensacci prima?” E guarda con i suoi occhi ingigantiti e pieni di rimprovero me, in quanto rappresentante della categoria degli adulti, che si ostina a non voler capire i ragazzi, neanche quando fanno cose così belle come l’amore. “E cioè, mo che lo so ci penso prima, la prossima volta, sa?!”
“E insomma, al pronto soccorso vi hanno mandati al consultorio?”
“E sì, ah Professoré: semo andati lì, semo entrati dentro: tutte donne! E noi così:” Guarda per aria e fa finta di fischiare. L’altro, che ha patito insieme a lui per tutto il racconto, fa altrettanto, sempre col sorriso.
“Ma poi c’avevano detto: aspettate qui e poi parlate col ginnecologo. E noi pensavamo fosse un uomo. Entramo dentro: era ‘na donna pure quella. Ma era bravissima, sa, quella. Mica c’ha strillati, sa? Così: metteteve seduti, spiegatemi… proprio gentile.
A Professorè, ma perché non ce le dicono, ‘ste cose? Perché nun ce lo dite, che ce sta ‘sto consultorio? Qui dentro non lo sa nessuno!”
Concordiamo una lezione dedicata agli anticoncezionali. Pongo severe condizioni di buona educazione, che verranno rispettate alla lettera.
Durante la fatidica lezione è presente tutta la classe, non vola un cartuccetto né una parolaccia né una mosca. Alla fine saranno presenti in aula ca. 40 ragazzi. Si era sparsa la voce, e dalle altre classi si sono intrufolati alla chetichella.
Avevo tenuto lezioni analoghe qualche anno prima a Pomezia. I ragazzi di allora sapevano dell’esistenza dei consultori, ma non come sono fatte le donne. Questi qui lo sanno benissimo. Leggono “Le Ore”.
Dalla lezione successiva con le interrogazioni sull’argomento sono uscita con i muscoli della pancia fortemente compromessi per le risate soffocate.
Portiamo l’argomento – insieme a droga e AIDS – anche all’esame. I membri di commissione esterni, seri impiegati statali della Regione Lazio, dell’Ufficio di Collocamento, un sindacalista grande oratore, al primo “argomento a piacere” soffocano lo sgomento ascoltando elenco e funzionamento degli anticoncezionali – e tacciono; verso il quinto cominciano a fare domande pertinenti. Così hanno imparato anche loro.
“A Professoré, perché quest’anno non possiamo andare a Rimini?”
“Come non potete andare a Rimini?”
“L’ha detto il professore. Ha detto che il Comune non ci da er permesso.”
Un altro pezzo dei tempi in cui la scuola, gestita dal sindacato, funzionava veramente, se ne va: la gita a Rimini. Tornavano sempre divertiti, grande esperienza, qualcuno di loro prima non aveva mai preso neanche la metropolitana per Roma.
Ora la gestione della scuola è passata al Comune di Roma. Partiamo con i ragazzi per gli uffici “competenti” per protestare, ma niente da fare. Dalle facce grigie dietro le scrivanie grigie arriva sempre la stessa risposta noiosa: No, non è previsto dal regolamento.
Alla fine ci arrangiamo. Partono il venerdì. Lunedì mattina, da Rimini, arriva una telefonata catastrofica che mette in subbuglio tutta la scuola: Vi rimandiamo Tizio, Caio e Sempronio. Si sono drogati.
Dato che la gita era libera e a spese proprie, qualcuno aveva portato due amici non della scuola. I quali si erano portate le canne. Sabato sera tutti in discoteca, alcuni non vogliono venire. Al ritorno dal ballo sfrenato, i professori fanno il giro delle stanze e colgono i piccioncini in flagrante, avvolti da nuvole di fumo, nella stanza di Carlo per giunta.
Apriti cielo. Ma come? Una cosa del genere in questa scuola? Ma se facciamo l’impossibile per offrirvi proprio un’alternativa alla droga?
Arrivano la mamma e la sorella di uno dei ragazzi peccatori, e in direzione si svolge l’ennesima scenata, preside, insegnanti, segretaria, madre, sorella, il ragazzo e altri compagni, tutti agitatissimi.
La madre anziana, popolana, malvestita, pancia all’infuori, spalle indietro per reggere il troppo peso del suo corpo, italiano quasi incomprensibile, la sorella strilla più forte di tutti: “…e mo’ da quando mi son schpusata tu fai cume ti pare, e mo’ ti raddrizzo io”. Ci tiene anche molto a far sapere che si è schpusata. L’imputato con il capo chino non risponde. Gli altri ragazzi assistono alla scena emozionati e muti; percepisco la loro silenziosa opposizione del tanto non serve a niente discutere con gli adulti che non vogliono sentir ragioni. E io voglio sapere.
Torno su in aula:
“Siete dei benemeriti cretini, voi!”
Sorpresa nell’aula dove aveva regnato una calma insolita: “A Professorè, mo pure Lei?”
“Ma sì, siete proprio imbecilli! E anche deficienti!”
“E perché?”
“Ma dico io: lo sapevate cosa abbiamo fatto per farvi partire, no? Siete venuti anche voi, avete visto con chi abbiamo a che fare negli uffici del Comune? Che responsabilità si sono assunti i vostri professori? E voi? Che fate? Ma Santiddio, se dovete proprio provare le canne, fatelo fuori di qui, su quel bel prato là fuori!! Ma non quando siete sotto la personale responsabilità dei nostri colleghi. Avete abusato della fiducia che abbiamo posto in voi!!
“È la prima cosa sensata che sento in mezzo a tutto ‘sto casino”, mi applaude l’appassionato di surf, voce sommessa in un gran silenzio.
Ricominciano a parlottare sottovoce, con molta serietà. Lascio correre. Carlo mi vuole comunicare qualcosa, ma non sa nemmeno lui cosa e come. Fa su e giù nel grande laboratorio, seguito dal suo inseparabile amico, biondo, occhi celesti e brutto come la fame.
Dopo un po’ si piantano davanti a me: “A professorè, ma perché voi fate così?”
“Ma Carlo mio, e qui sono problemi. Noi abbiamo delle responsabilità, no?
“Ma perché non ci capite? Siete stati giovani anche voi, no?”
“Certo.”
“E la droga l’avete provata anche voi, no?”
“La droga? No, ai tempi miei la droga non c’era.”
“Come non c’era la droga?” Stupore e sconcerto nella faccia di Carlo.
“Eh, non c’era.”
Carlo si alza di scatto e ricomincia a fare su e giù, seguito dall’amico. La botta è forte. Essere giovani in un mondo senza droga. – E adesso come faccio a spiegarle?
Aspetto un bel po’.
Ritorna con gesto conciliante, seguito dal biondo che imita ogni sua smorfia:
“A Professoré, ma è vero che non c’era la droga?”
“No, non c’era.”
“Ma i Beatles non si drogavano?”
“Eh, i Beatles erano i Beatles. Prendevano l’LSD. Si leggeva nei giornali. Ma a noi comuni mortali… Certo, conoscevo una dottoressa che aveva accesso alla morfina in ospedale e questa si drogava. Quello che non c’era è quel mercato della droga con cui avete a che fare voi, così continuamente, tutti i giorni.”
Carlo deve riflettere di nuovo. Altre passeggiate.
Poi torna e mi chiede cosa avrebbe dovuto fare lui secondo me, con tutti quegli amici in stanza che fumavano. E mi recita un’impressionante scenetta su come stavano e si comportavano questi amici sotto l’effetto delle canne. L’amico partecipa appassionato, facendogli da spalla. Carlo non aveva fumato, si era difeso contro l’accusa, anche e principalmente perché aveva paura del padre che, se il figlio fosse stato rispedito a casa con gli altri colpevoli, lo avrebbe ammazzato di botte. Non so con quali argomenti era riuscito a convincere i miei colleghi.
Uso molte parole per esporre gli argomenti miei e dei miei colleghi, che loro due si devono tenere lontani da tutto il mondo della droga, che non devono avere nulla a che fare con loro. Che altrimenti rischiano di essere trascinati dentro anche loro. Che non possono certo impedire agli altri di drogarsi, ma l’unica difesa possibile è appunto quella di starsene fuori. Che la droga non è solo pericolosa perché illegale con tutti i guai con la giustizia, ma che è anche una sostanza che fa male, un rischio per la loro salute. Che così si rovinano. E che poi non ne escono più fuori. E mi appassiono tanto.
I due tentano qualche piccola protesta, ma non voglio sentir ragioni.
L’ennesima passeggiata porta finalmente la soluzione.
“A Professorè, e se Lei una sera va in macchina coll’amici, Lei da sola, eh? Senza Suo marito. E poi ad un certo punto questi si fermano e cominciano a drogarsi, Lei che fa?”
“Io? Che faccio? Scappo!”
“Ma no, no! State in campagna, non ci sono case, non c’è nessuno. Dove va?”
“Ah, non m’importa. Io scappo, faccio chilometri a piedi, ma non voglio avere niente a che fare con questa roba, io!”
“Eh….”
“Noi la pensiamo diversamente,” sussurra il biondo.
E Carlo: “E se poi questi suoi amici si senteno male? Che gli hanno venduto la robaccia?
A Professorè, noi siamo rimasti con loro perché se succedeva qualcosa chiamavamo aiuto, chiamavamo i professori, qualcuno dell’albergo. Chennesai, se la roba che gli avevano venduto era pulita?”
Ho perso irrimediabilmente il contatto con questi ragazzi. Lavoro con dei clienti ora. Lezioni individuali o piccoli gruppi. Li conosco uno per uno. Sono estremamente motivati, studenti universitari, professionisti, miei coetanei e anche oltre. La risonanza che viene da loro è totalmente diversa nel contenuto, ma sempre viva, profonda, di cuore, imprevedibile e sorprendente.
Federico deve imparare il tedesco per motivi di lavoro. Ha provato tante volte, ora l’ennesimo tentativo in una scuola privata di lingue, sotto le mie cure mentre nasce la prima stesura di queste righe.
Fatico a fargli capire che ci sono i casi in tedesco, anzi già lo sa, ma, avendo una personalità forte, non gli va giù che bisogna anche adoperarli. Spiego e rispiego, lui registra tutto su nastro che ascolterà durante le lunghe ore di lavoro solitario per il suo cliente tedesco. L’unico risultato che posso registrare è il fatto che per ogni lezione si presenta qualche minuto prima dell’inizio ufficiale, quasi venti minuti prima alla settima lezione.
“Sono una capra, io! ”
E giù la cartella con i libri sul tavolo che rimbalza.
“Ma?”
“Eh sì, sono proprio deficiente, io, non ne posso più!”
E giù il casco e tutto il resto.
“Federico, mi spieghi cos’è successo?”
“Eh, ma su quel nastro, ma Santiddio!! E tu mi spieghi una cosa, e poi c’è il silenzio. E poi io ti faccio le domande cretine. E tu cominci: ‘ti ripeto’ e mi rispieghi tutto un’altra volta, e c’è un altro silenzio, e tu: ‘ti ripeto’ e io niente, e ‘ti ripeto’ e niente. Ma è possibile che non ci capisco proprio niente???!!”
Tento di calmarlo: “Caro Federico, guarda che capire la funzione e l’uso dei casi in tedesco non è mica tanto facile, sai? Gli altri hanno studiato 4, 5, 6 anni di latino a scuola, il greco! Tu non hai mai studiato altre lingue e non puoi mica pretendere di capire tutto in un colpo solo!”
“Hmmh,…… – e ma tutto quel ‘ti ripeto’ e ‘ti ripeto’ e ‘ti ripeto’? … E poi: tutti questi silenzi su quel nastro! Cosa faccio io, quando c’è tutto quel silenzio?”
“Pensi.”
Il dubbio, l’errore, il silenzio – sono i contrasti più forti e incisivi del nostro negativo. Federico è fotografo.
Dopo la quattordicesima lezione arriva, altrettanto nero, perché ancora non sa parlare un tedesco scorrevole. Ha già dimenticato le fatiche precedenti. Sto aspettando la ventiduesima lezione ora.
© Claudia Podehl
Altre Storie di Claudia